Sensibilità Chimica Multipla: che cos'è

Autore: Ilaria Ciancaleoni Bartoli

La Sensibilità Chimica Multipla (MCS) è una malattia che pochi conoscono e che la maggior parte dei medici riconosce con difficoltà. La malattia si caratterizza infatti per una serie di sintomi differenti, che possono colpire ogni organo, e le sue manifestazioni sono estremamente differenti da persona a persona e infatti il nome stesso dato alla patologie è piuttosto generico. I sintomi più frequenti, ed altamente lesivi della qualità della vita del paziente, fino all’invalidità, sono quelli di tipo allergico come difficoltà respiratoria, nausea, emicrania, dermatiti da contatto, vertigini, ipersensibilità agli odori e manifestazioni, talvolta anche gravi a livello neurologico, come sdoppiamento della personalità e amnesia.
Con il tempo, soprattutto se l’esposizione alla sostanza continua, la malattia produce nell’organismo effetti irreversibili e può portare addirittura allo sviluppo del cancro, di malattie autoimmuni e all’ictus.
Proprio la presenza dei sintomi neurologici, accompagnata dal fatto che nei pazienti non venivano riscontrate allergia, ha per molto tempo indotto a indirizzare queste persone verso cure psichiatriche ma solo in alcuni casi trattamenti con gli antidepressivi hanno dato buoni risultati. Oltre alla varietà dei sintomi e della loro gravità a rendere più difficile la diagnosi – e anche a rendere assai difficile una vita normale – è il fatto che a causarli possono essere sostanze molto differenti tra loro e di uso estremamente comune come la candeggina, detergenti, profumi, saponi, pesticidi e prodotti da giardino, ma anche gas di scarico, micropolveri e campi elettromagnetici accentuati. Per molti pazienti diventa difficile trovare anche un ambiente adeguato in cui vivere poiché l’installazione di un ripetitore telefonico, la presenza di un benzinaio o di molto traffico o di altre comuni attività commerciali vicine può rendere la vita insopportabile.
Spesso i sitomi si accompagna a stati ansiosi e depressioni,  ma è difficile ancora stabilire se questi facciano veramente parte della malattia o siano piuttosto una conseguenza del timore continuo di entrare in contatto con le sostanze e la difficoltà a condurre una vita normale. Attualmente l’ipotesi tenuta in maggior considerazione, scartata ormai quella che si tratti di un problema di tipo psichiatrico, è che  la malattia sia causata da una ridotta capacità di metabolizzazione delle sostanze xenobiotiche a causa di una carenza genetica o della rottura dei meccanismi enzimatici di metabolizzazione a seguito della esposizione tossica.
Attualmente la patologia non è inserita tra quelle riconosciute come esenti dal nostro sistema sanitario nazionale tuttavia alcune regioni - per l'esattezza Toscana, Emilia Romagna e Abruzzo - grazie all'autonomia in materia, hanno dato alla malattia questo riconoscimento.

Vista la grande difficoltà nel diagnosticare la malattia e la recente considerazione che le è stata data è molto difficile fare una stima della sua reale presenza nella popolazione. Tra gli esperti italiani ci sono il  prof. Giuseppe Genovesi medico specialista in endocrinologia, psichiatria e immunologia e ricercatore presso il Policlinico Umberto I di Roma, il prof. Alessio e il Prof. R. Lucchini degli Spedali Riuniti di Brescia, il Prof. Tirelli, direttore del Centro Oncologico di Aviano, il dott. Cipolla dell’Ospedale S.Orsola Malpighi di Bologna, il Prof. Carrer dell’Università di Milano, il dott. Arcangeli e il dott. Rossi dell’Ospedale Careggi di Firenze.

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Che cos'è l'Ipercolesterolemia Familiare

Autore: Ilaria Ciancaleoni Bartoli

Nel mondo circa una persona ogni 500 ha un’alterazione genetica che causa ipercolesterolemia familiare; l’alterazione che si riscontra più frequentemente è a carico del gene che codifica per il recettore delle LDL. Questo recettore si trova sulla superfice della cellula ed ha il compito di “catturare” le particelle di colesterolo LDL, rimuovendole dal sangue. L’alterazione del gene provoca la formazione di recettori per le LDL malfunzionanti, ossia di recettori che non sono in grado di rimuovere il colesterolo LDL dal sangue.
La maggior parte dei soggetti con ipercolesterolemia familiare ha ereditato un gene difettoso per il recettore delle LDL da uno dei genitori ed un gene normale dall’altro genitore.
Conseguentemente, in questi soggetti, circa la metà dei recettori per le LDL presenti sulla superfice delle cellule, è correttamente funzionante. In questi casi si parla di ipercolesterolemia familiare eterozigote, mentre quando un soggetto eredita il gene difettoso per il recettore delle LDL da entrambi i genitori, si parla di ipercolesterolemia familiare omozigote. Quest’ultime sono forme di ipercolesterolemia molto rare, colpiscono infatti circa un soggetto su un milione, ma anche molto più gravi delle forme eterozigoti.

I soggetti omozigoti, infatti, sono completamente privi di recettori funzionanti

e ad oggi, non esiste alcun trattamento, dietetico o farmacologico, che

da solo o combinato, sia in grado di ridurre efficacemente il

colesterolo estremamente elevato che è presente in questi soggetti.
In questi casi si rende quindi necessario ricorrere ad una rimozione meccanica dal sangue del colesterolo LDL, utilizzando una metodica simile alla dialisi, chiamata LDL-aferesi.



La diagnosi di ipercolesterolemia familiare

può essere fatta clinicamente, sulla base dell’anamnesi personale e

familiare del soggetto ed in presenza di alcuni segni clinici che, per

quanto non sempre presenti in tutti i soggetti, sono indicativi di

un’ipercolesterolemia familiare.
I segni clinici visibili i

più comuni sono dei rigonfiamenti, detti xantomi, presenti sui tendini

del tallone e delle mani e dei depositi giallognoli sulla pelle intorno

agli occhi (xantelasmi). Meno comunemente si può anche osservare

un deposito biancastro di colesterolo, chiamato arco corneale, a

circondare la parte colorata (iride) dell’occhio,.



Attualmente la diagnosi

di ipercolesterolemia familiare può essere fatta mediante un test

genetico che, attraverso l’analisi del DNA del soggetto, permette una

ricerca accurata dei difetti che possono colpire il gene del recettore

per le LDL o altri geni che sono coinvolti nella regolazione del

metabolismo del colesterolo. Comunemente si utilizza il DNA contenuto

nei globuli bianchi, è quindi sufficiente un semplice prelievo del

sangue per procedere con la diagnosi genetica.
Poiché se un soggetto

è affetto da ipercolesterolemia familiare i suoi parenti più prossimi

(genitori, fratelli, sorelle, figli) hanno il 50 per cento di

probabilità di aver anch’essi ereditato la malattia, diventa cruciale

una valutazione genetica dei componenti della famiglia, per poter

ottenere una diagnosi precoce di questa malattia.
E’ importante

che la diagnosi di ipercolesterolemia familiare venga fatta il prima

possibile perché il trattamento è tanto più efficace quanto prima viene

iniziato.
Una diagnosi ottenuta in età giovanile permette

infatti di poter attuare un precoce cambiamento nelle abitudini

alimentari, negli stili di vita ed eventualmente anche l’inizio di

un’adeguata terapia farmacologica, tutte misure che possono ridurre

l’impatto della malattia nell’età adulta.

L’ipercolesterolemia familiare è uno dei principali fattori di rischio cardiovascolare.

La

presenza di elevati valori di colesterolo LDL contribuisce

all’instaurarsi di un processo di alterazione delle pareti dei vasi,

noto come aterosclerosi, che a sua volta è strettamente correlato

all’insorgenza di gravi malattie cardio e cerebro vascolari.



L’aterosclerosi

si manifesta inizialmente con la formazione di cellule ricche di

colesterolo all’interno della parete dei vasi sanguigni.
Questo

processo causa infiammazione, proliferazione cellulare, ulteriori

depositi di colesterolo, formazione di tessuto cicatriziale ed

indurimento della parete vascolare. Tutto ciò ha come risultato finale

la formazione di una cosiddetta «placca».
In particolari circostanze

le placche possono andare incontro ad un processo di rottura in seguito

al quale si formano degli emboli che possono restringere gravemente i

vasi, fino a bloccare completamente il flusso sanguigno. L’arresto del

flusso del sangue comporta un’immediata mancanza di ossigeno dei tessuti

colpiti, provocando nell’organo interessato, danni anche molto estesi,

che sono alla base di gravi malattie quali ad esempio l’infarto del

miocardio o l’ictus cerebrale.



Nei soggetti con

ipercolesterolemia familiare, il rischio di malattia cardiovascolare è

sensibilmente più alto rispetto ai soggetti normali. Tale rischio

aumenta con l’aumentare dei livelli di colesterolo LDL ed è amplificato

dalla presenza di ulteriori fattori di rischio, quali ad esempio diabete

ed ipertensione.
Con un adeguato controllo della colesterolemia

attraverso opportune misure dietetiche e farmacologiche, un corretto

stile di vita ed un’opportuna correzione di eventuali altri fattori di

rischio, è possibile ridurre sensibilmente il rischio di insorgenza

dell’aterosclerosi e conseguentemente la comparsa di malattie

cardiovascolari anche gravi.